00 08/12/2009 01:15
Non cade il muro dei segreti

di Miguel Gotor

Il 12 dicembre saranno trascorsi quarant'anni dalla strage di piazza Fontana, quando una bomba esplose nella sede della Banca nazionale dell'Agricoltura di Milano uccidendo 17 persone e ferendone oltre 80. Oggi chi attraversa quella piazza può scorgere nell'aiuola antistante la Banca due lapidi dedicate al ferroviere anarchico, Giuseppe Pinelli, la diciottesima incolpevole vittima di quella strage: la prima, a cura degli Studenti democratici milanesi, recita: «Ucciso innocente nei locali della Questura»; la seconda, patrocinata dal comune di Milano, riporta «Innocente morto nei locali della Questura». Se l'ambivalenza raggiunge persino i "luoghi della memoria", fino a scolpirsi nei processi di monumentalizzazione del ricordo, ciò è il sintomo di una grave fragilità politica, culturale e civile. Sin dai primi momenti, per spiegare quella strage, si gridò alla pista anarchica, ma già il 14 dicembre 1969 il quotidiano inglese The Observer sostenne la matrice fascista dell'attentato e denunciò un piano di destabilizzazione che avrebbe dovuto portare allo scioglimento delle Camere da parte del presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat e all'insediamento di un governo autoritario. Per la prima volta apparve, sulle pagine di quel giornale, la formula «strategia della tensione», destinata a triste e duratura fortuna. L'obiettivo dell'azione sovversiva sarebbe stato quello di sbarrare la strada a ogni accordo presente e futuro tra la Dc, i socialisti e soprattutto i comunisti, di cui si iniziavano a intravedere le prime avvisaglie con la cosiddetta «strategia dell'attenzione», enunciata da Aldo Moro il 29 giugno 1969 durante il congresso democristiano. Dieci giorni dopo la strage, il 23 dicembre 1969, Moro, allora ministro degli Esteri, incontrò al Quirinale, Saragat per il rituale scambio di auguri. Secondo alcuni in quell'occasione fu stabilito un compromesso istituzionale e politico funzionale a contenere e a governare gli effetti destabilizzanti di quel tragico 12 dicembre: Moro avrebbe ottenuto da parte del presidente della Repubblica la rinuncia allo scioglimento delle Camere, offrendo in cambio la disponibilità politica da parte della Dc a coprire la matrice fascista della strage, accreditando la pista anarchica, come puntualmente avvenne nei mesi successivi.
I fatti dicono che da quel momento si aprì un ciclo stragista che fino al 1974 insanguinò l'Italia: con la bomba sul treno Freccia del Sud il 22 luglio 1970 (6 morti e 50 feriti), la strage di Peteano (31 maggio 1972, 3 carabinieri uccisi), l'attentato alla Questura di Milano (17 maggio 1973, 4 morti e 45 feriti), l'attentato di piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974, 8 morti e 103 feriti) e la strage del treno Italicus (4 agosto 1974, 12 morti e 44 feriti).
La giustizia, in questo come in quasi tutti gli altri processi per strage, non è arrivata a formulare una sentenza definitiva di condanna, pur ricostruendo un quadro probatorio che ha dimostrato la responsabilità della manovalanza neofascista e una tenace attività di depistaggio di una parte dei servizi segreti italiani. I mandanti restano ancora oscuri. Di là dalle risultanze giudiziarie, il nesso tra neofascismo italiano e stragismo è storicamente motivato da almeno tre fatti: un arrestato (Gianfranco Bertoli, autore della strage alla Questura di Milano), un reo confesso (Vincenzo Vinciguerra, autore della strage di Peteano) e un incidente di percorso (il camerata Nico Azzi, ferito nel 1973 dallo scoppio di una bomba che stava innescando sul treno Torino-Roma, con una copia di Lotta Continua in tasca). Nel corso degli anni il trauma di piazza Fontana si è trasformato in un simulacro generazionale: per molti il giorno dell'innocenza perduta, per altri, una minoranza, l'alibi che li portò a imboccare la strada sciagurata della lotta armata, la "strage di Stato" che avrebbe dovuto giustificare davanti al foro della propria coscienza e agli occhi della storia quella scelta. Non a caso, il primo a morire fu il commissario Luigi Calabresi, ucciso da due militanti di Lotta continua il 17 maggio 1972, tragico epilogo di una furibonda campagna di stampa orchestrata dal giornale dell'organizzazione extraparlamentare che l'accusava della morte di Pinelli.
Quarant'anni dopo, il tempo della politica parla le parole della riconciliazione e a questo proposito sono preclari gli sforzi compiuti dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano che ha creato le condizioni per un incontro pubblico, in occasione della giornata della memoria del 9 maggio 2009, tra Gemma Calabresi e Licia Pinelli, potendo contare sulla solidarietà umana, la dignità e il senso di civismo delle due vedove. La voce incrinata dalla commozione. Atti del genere inducono a ritenere che sia finalmente giunto il tempo di lasciare lo spazio alla buona ricerca storica, ma la strada permane irta di ostacoli. In effetti, perché ciò avvenga sarebbe necessario avere la massima disponibilità dei documenti. Al riguardo la recente legge sulla "disciplina del segreto" del 3 agosto 2007 voluta dal governo guidato da Romano Prodi, ha compiuto due importanti passi in avanti: da un lato, ha limitato a un massimo di 30 anni la durata complessiva del segreto di Stato, dal momento in cui è apposto sul documento od opposto alla magistratura; dall'altro, ha stabilito un criterio di declassificazione automatica dei documenti riservati (ossia non quelli soggetti al segreto di Stato) al livello inferiore di 5 anni in 5 anni, salvo motivata opposizione. Si tratta di due principi di civiltà giuridica comuni ad altri Stati democratici che si sono faticosamente affermati anche in Italia grazie a un meritorio sforzo legislativo bipartisan.
Tuttavia, a partire dal decreto attuativo dell'8 aprile 2008, rimangono aperti almeno due problemi. Anzitutto, nella legge si precisa che «la cessazione del vincolo del segreto di Stato non comporta l'automatica decadenza dal regime di classifica», e quindi ai 30 anni di attesa per il segreto di Stato si possono aggiungere i tempi previsti dalle nuove procedure di declassifica – teoricamente estendibili a oltranza – in barba a ogni principio di liberalità e trasparenza. In secondo luogo, accanto a tali vincoli persiste uno strisciante «segreto di fatto», alimentato dall'esistenza di santuari inaccessibili come gli archivi dell'Arma dei Carabinieri, dal modo in cui le diverse amministrazioni civili conservano i documenti e, infine, dalla discrezionalità con cui devolvono i loro fondi all'Archivio centrale dello Stato. Permane una certa resistenza che produce effetti deleteri sul piano della salvaguardia della memoria storica, anche perché spesso le carte vengono custodite in luoghi inadatti e quando giungono a destinazione sono così disordinate da restare inaccessibili per lungo tempo. Anche per questi motivi, e nonostante gli apprezzabili sforzi istituzionali, si ha l'impressione che la doppia lapide di piazza Fontana sia destinata a rimanere lì ancora a lungo: certo, è la metafora di un conflitto politico ancora irrisolto, ma soprattutto di una difficoltà a svolgere corretta informazione e buona ricerca su temi centrali che non interrogano solo la storia di ieri, bensì la qualità della nostra democrazia oggi. Senza mai dimenticare, però, che la democrazia di ieri, malgrado tutto, ha vinto, perché quanti hanno messo le bombe a tradimento e hanno sparato alle spalle sono stati sconfitti. Quarant'anni dopo, dunque, ricordiamo «Viva l'Italia», «l'Italia del 12 dicembre», «l'Italia derubata e colpita al cuore», quella «che non ha paura», «metà giardino e metà galera», «l'Italia che lavora», «metà dovere e metà fortuna», «l'Italia nuda come sempre», «l'Italia con gli occhi aperti nella notte triste, viva l'Italia, l'Italia che resiste»: perché la poesia arriva prima e guarda più lontano della politica, figuriamoci della storia.
miguel.gotor@unito.it

7 dicembre 2009


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